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E cco. Se proprio volessimo semplificare al massimo, in nome della legge del minimo sforzo, potremmo metterla così: il mondo si divide in due. Tra chi le cose vuole sperimentarle (un po’ come la Bianca di morettiana memoria, che prima di sentenziare sull’effettiva bontà di un gelato alla fragola, limone, panna e croccantino, ritiene sia giusto assaggiarlo) e chi, come Michele Apicella (stesso film, ma molto più nevrotico) pensa che “le cose mica bisogna provarle, per sapere se vanno bene oppure no: lo si può prevedere, così non si fanno errori”. Una dicotomia radicale. Un’opposizione siderale, con con- seguenze ponderose. E poderose. Per quanto attiene al singolo individuo, parteggiare per una posizione oper un’altra dipende quasi sempre dalla peculiare impostazione caratteriale. E la scelta ha delle implicazioni comunque circoscritte. Quando però si esce dalla sfera personale, per sconfinare in quella pubblica, assecondare gli sperimentalismi non può essere un semplice automatismo. Diciamo piuttosto che se è insito nella natura di molti con- sumatori indulgere alla sperimentazione, alle aziende è invece richiesto uno sforzo ben più articolato: fornire al pubblico proposte da provare, ma anteporre al lancio delle nuove formulazioni un attento studio predittivo, che limiti al minimo la componente aleatoria. La partita, insomma si gioca su due fronti. Da una parte la volubile bulimia di una domanda apparen- temente ondivaga, ma di fatto scientificamente mossa da correnti sotterranee ben delineate. Dall’altra, l’ambizione aziendale di intercettare un pubblico interessante, senza però sottovalutare la necessità di una pianificazione. Purtroppo non sempre le cose vanno come dovrebbero. Lo dimostra ad esempio il recente tracollo reputazionale che ha investito il retail. O almeno una parte di esso. Il motivo? Non tutti i retailer hanno compreso in tempo come il processo di consumo stesse diventando prioritario rispetto all’atto di consumo stesso. Con conseguente delu- sione dei propri clienti, già mentalmente proiettati verso la sperimentazione di questa nuova prospettiva (come ci racconta bene, da pag. 18, la nostra cover story). E non si tratta di un caso isolato: lo sfalsamento di prospettiva tra pubblico (potenziale o effettivo) e aziende si conferma anche nell’ambito della multicanalità. Le imprese infatti, do- vrebbero far tesoro delle pulsioni istintive dei propri clienti, per poi razionalizzarle e concretizzarle progettualmente. Ma anche qui, ahimè pare ci sia molto da fare (da pag. 22). Quanto alle nuove generazioni, stesso discorso: anche tra i giovani l’istinto è quello di sperimentare nuove soluzioni, siano esse nell’ambito della sostenibilità, del lusso (da pag. 46) o di altri mercati emergenti (da pag. 4). La questione vera è – ancora una volta – che questa spinta emotiva deve essere prevista dalle aziende e anticipata nelle sue possibili evoluzioni future. Perché – mai dimen- ticarlo – la soddisfazione di un bisogno innesca a catena un tourbillon di nuove richieste. Essere lenti nel prevedere, carenti nel pronosticare le evo- luzioni, si concretizza sempre in un ostacolo. E, a quel punto, la priorità è trovare una soluzione. Un po’ come ha fatto Eric Stille di Fork Lift (da pag.12) che in diffi- coltà per aver sottovalutato le richiesta di prodotti ispanici, è alla fine uscito dall’impasse, optando per un incremento degli assortimenti in “chiave latina”. E poi, e non poteva essere altrimenti, ci sono casi eclatanti di eccezione alla regola. Casi in cui, cioè, la previsione delle future preferenze dei consumatori va addirittura oltre ogni aspettativa. Tanto da far pensare che questa eccezio- nale tempestività possa avere avuto degli effetti subliminali sull’orientamento dei gusti. E Amazon Go (da pag. 8) è, in questo senso, emblematico. Dopo aver messo il consumatore in un’apparente condizione di assoluto NON controllo, ingenera infatti una sensazione di straniamento. Una condizione temporanea, da cui quasi maieuticamente, prende corpo quell’euforia consumistica che, nella sua forma latente, era già stata individuata da abili strategie predittive. Un sottile gioco di statistica, algoritmi e reti neurali che conferma scientificamente che le cose si possono prevede- re, così non si fanno errori. O, almeno, se ne fanno meno. EDITORIALE
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